Prende il via oggi il Blog Tour organizzato dalla mia amica Susy, del blog I miei magici mondi, dedicato al libro di Lucy Adlington intitolato Le sarte di Auschwitz, edito da Rizzoli e pubblicato lo scorso 11 gennaio.
In questa prima tappa proverò a parlarvi della monda nel 1942. Nel banner qui sopra potete trovare tutte le date, i blog e gli argomenti trattati dal Blog Tour, vi consiglio di non perdervi nemmeno una tappa per avere una visione più completa del libro.
Ringrazio di cuore Susy per aver organizzato l’evento e per avermi coinvolta.
Ringrazio Rizzoli per la copia del libro in omaggio.
Ringrazio di cuore Susy per aver organizzato l’evento e per avermi coinvolta.
Ringrazio Rizzoli per la copia del libro in omaggio.
Titolo: Le sarte di Auschwitz
Autore: Lucy Adlington
Editore: Rizzoli
Genere: Narrativa, Saggistica
Pagine: 432
Formato: e-book – cartaceo
Prezzo e-book: 10,99 €
Prezzo cartaceo: 19,00 €
Data di uscita: 11 gennaio 2021
Disponibile su Amazon (link di acquisto nel titolo)
Autore: Lucy Adlington
Editore: Rizzoli
Genere: Narrativa, Saggistica
Pagine: 432
Formato: e-book – cartaceo
Prezzo e-book: 10,99 €
Prezzo cartaceo: 19,00 €
Data di uscita: 11 gennaio 2021
Disponibile su Amazon (link di acquisto nel titolo)
Trama:
Irene, Renée, Bracha, Katka, Hunya, Mimi, Manci, Marta, Olga, Alida, Marilou, Lulu, Baba, Boriška... Durante la fase culminante dello sterminio degli ebrei d’Europa, venticinque giovani internate nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau furono selezionate per disegnare, tagliare e cucire capi d’alta moda destinati alle mogli delle SS del lager e alle dame dell’élite nazista berlinese. Tranne due prigioniere politiche francesi, le ragazze erano tutte ebree dell’Europa orientale, la maggior parte slovacche, giunte al campo con i primi trasporti femminili nel 1942, dopo essere state private di tutto. Trascorrevano le giornate chine sul loro lavoro, in una stanza situata nel seminterrato dell’edificio che ospitava gli uffici amministrativi delle SS. La loro principale cliente era la donna che aveva ideato l’atelier: Hedwig Höss, la moglie del comandante. Il lavoro nel Laboratorio di alta sartoria – così era chiamato il locale – le salvò dalla camera a gas. I legami di amicizia, e in alcuni casi di parentela, che univano le sarte non solo le aiutarono a sopportare le persecuzioni, ma diedero loro anche il coraggio di partecipare alla resistenza interna del lager. Attingendo a diverse fonti, comprese una serie di interviste all’ultima sopravvissuta del gruppo, Lucy Adlington narra la storia di queste donne. Mentre ne segue i destini, intreccia la loro vita personale e professionale all’evoluzione della moda e della condizione femminile dell’epoca e alle varie tappe della politica antiebraica in Germania e nei territori via via occupati dal Terzo Reich. "Le sarte di Auschwitz" racconta gli orrori del nazismo e dei campi di concentramento da una prospettiva originale e offre uno sguardo inedito su un capitolo poco noto della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto. E allo stesso tempo è un monito a non sottovalutare la banalità del male.
Irene, Renée, Bracha, Katka, Hunya, Mimi, Manci, Marta, Olga, Alida, Marilou, Lulu, Baba, Boriška... Durante la fase culminante dello sterminio degli ebrei d’Europa, venticinque giovani internate nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau furono selezionate per disegnare, tagliare e cucire capi d’alta moda destinati alle mogli delle SS del lager e alle dame dell’élite nazista berlinese. Tranne due prigioniere politiche francesi, le ragazze erano tutte ebree dell’Europa orientale, la maggior parte slovacche, giunte al campo con i primi trasporti femminili nel 1942, dopo essere state private di tutto. Trascorrevano le giornate chine sul loro lavoro, in una stanza situata nel seminterrato dell’edificio che ospitava gli uffici amministrativi delle SS. La loro principale cliente era la donna che aveva ideato l’atelier: Hedwig Höss, la moglie del comandante. Il lavoro nel Laboratorio di alta sartoria – così era chiamato il locale – le salvò dalla camera a gas. I legami di amicizia, e in alcuni casi di parentela, che univano le sarte non solo le aiutarono a sopportare le persecuzioni, ma diedero loro anche il coraggio di partecipare alla resistenza interna del lager. Attingendo a diverse fonti, comprese una serie di interviste all’ultima sopravvissuta del gruppo, Lucy Adlington narra la storia di queste donne. Mentre ne segue i destini, intreccia la loro vita personale e professionale all’evoluzione della moda e della condizione femminile dell’epoca e alle varie tappe della politica antiebraica in Germania e nei territori via via occupati dal Terzo Reich. "Le sarte di Auschwitz" racconta gli orrori del nazismo e dei campi di concentramento da una prospettiva originale e offre uno sguardo inedito su un capitolo poco noto della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto. E allo stesso tempo è un monito a non sottovalutare la banalità del male.
Lucy Adlington ci mostra una nuova sfumatura riguardante uno dei periodi più bui della nostra storia.
Venticinque giovani detenute nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, principalmente donne e ragazze ebree, furono scelte per disegnare, tagliare e cucire splendidi capi di abbigliamento per le donne dell’élite nazista, in un Laboratorio di alta sartoria fondato da Hedwig Höss, moglie di Rudolf l'ufficiale delle SS al comando nel campo di concentramento.
Venticinque giovani detenute nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, principalmente donne e ragazze ebree, furono scelte per disegnare, tagliare e cucire splendidi capi di abbigliamento per le donne dell’élite nazista, in un Laboratorio di alta sartoria fondato da Hedwig Höss, moglie di Rudolf l'ufficiale delle SS al comando nel campo di concentramento.
È sorprendente come i capi di abbigliamento possano unire le persone superando i continenti e le generazioni. Qui, alla base del comune apprezzamento del taglio, dello stile e dell’abilità sartoriale, c’è però un fatto molto più significativo: tanti anni fa, la signora Kohút si occupava di stoffe e indumenti in un contesto decisamente diverso. È infatti l’ultima sarta sopravvissuta di un atelier aperto nel campo di concentramento di Auschwitz.
Le sarte di Auschwitz racconta una storia intensa, commovente, toccante e, soprattutto, vera. L’autrice ha fatto un lavoro di documentazione straordinario, mostrandoci come la vita di venticinque donne, tra cui Irene, Renée, Bracha, Katka, Hunya, Mimi, Manci, Marta, Olga, Alida, Marilou, Lulu, Baba, Boriška si intrecci, creando una rete di supporto sorprendente, qualcosa capace di andare ben oltre l’orrore della guerra. Donne che sono sopravvissute all’orrore dell’Olocausto, grazie al loro talento come sarte. Donne che sono state spogliate dei loro averi, private della loro identità, diventando un insieme di numeri, ma che non si sono lasciate schiacciare dall’inferno che le circondava.
Donne sopravvissute grazie al linguaggio della moda e all’importanza che essa ha avuto in un periodo così oscuro da essere completamente fuori controllo.
Donne sopravvissute grazie al linguaggio della moda e all’importanza che essa ha avuto in un periodo così oscuro da essere completamente fuori controllo.
Le riviste di moda per la primavera del 1942 mostrano donne spensierate e sorridenti che per uscire indossano soprabiti e cappotti con la cintura in vita, scampanati o con favolose plissettature «a pacchetto» sulla parte posteriore. Le immagini stridevano totalmente con la realtà delle deportate slovacche, che si vestirono trepidanti, aggiungendo cappelli, sciarpe e guanti di lana in previsione di lavorare in condizioni atmosferiche proibitive. Alcune ragazze indossavano i capi a strati per portarne con sé di più.
Con la Seconda guerra mondiale l’Alta Moda ha vissuto un periodo molto incerto: le aziende avevano grosse difficoltà a reperire i materiali per le produzioni e i combattimenti limitarono il numero di clienti disponibili e con denaro da spendere.
Fu proprio la carenza di tessuti a portare lo stile femminile a semplificarsi con il ritorno delle gonne al ginocchio e l’uso di stoffe di bassa qualità. Erano addirittura in vigore norme severe che regolavano la metratura massima di tessuta da utilizzare per produrre un cappotto o un vestito e anche la lunghezza delle cinture.
La moda del tempo privilegiava i tailleur, le gonne aderenti con cinture per sottolineare la vita e camicette. Entrarono a far parte dell’abbigliamento abituale le giacche con le spalline imbottite e con molte tasche per trasportare documenti e denaro. Per la prima volta i pantaloni divennero un indumento quotidiano, prima d’allora solo utilizzato nelle fabbriche, ora come look informale per il tempo libero. I tessuti utilizzati per questo outfit devono necessariamente essere pesanti, poveri e dai colori decisi quali il verde scuro, il cammello o il marrone.
Fu proprio la carenza di tessuti a portare lo stile femminile a semplificarsi con il ritorno delle gonne al ginocchio e l’uso di stoffe di bassa qualità. Erano addirittura in vigore norme severe che regolavano la metratura massima di tessuta da utilizzare per produrre un cappotto o un vestito e anche la lunghezza delle cinture.
La moda del tempo privilegiava i tailleur, le gonne aderenti con cinture per sottolineare la vita e camicette. Entrarono a far parte dell’abbigliamento abituale le giacche con le spalline imbottite e con molte tasche per trasportare documenti e denaro. Per la prima volta i pantaloni divennero un indumento quotidiano, prima d’allora solo utilizzato nelle fabbriche, ora come look informale per il tempo libero. I tessuti utilizzati per questo outfit devono necessariamente essere pesanti, poveri e dai colori decisi quali il verde scuro, il cammello o il marrone.
I modelli più amati negli anni della guerra erano abiti appena sotto il ginocchio, maglie a maniche corte lavorate a punto aperto, con effetto pizzo, sottovesti tagliate di sbieco in modo da scivolare sulle curve ed eleganti tailleur. Le camicie da notte e i vestiti da sera erano lunghi. Le donne delle SS non dovevano preoccuparsi di sentire freddo nei loro abiti in tessuti finissimi dalle vertiginose scollature: avevano stole di pelo e pellicce in abbondanza.
Tra il 1941 e il 1945 la moda femminile non visse cambiamenti radicali. I tailleur squadrati divennero ancora più militari, le gonne si fecero più corte e succinte, i copricapi sempre più stravaganti, fino a distorcere completamente le proporzioni. Si sposta l’attenzione dai vestiti alla testa, creando eccentrici copricapi: con molta fantasia e mezzi semplicissimi si cercava di ovviare alla mancanza di vestiti eleganti. Gli alti copricapi a turbante sapevano donare fascino, sebbene realizzati con materiale di recupero e potevano camuffare la mancanza di un bel taglio di capelli, ai quali forzatamente si doveva dare minore cura.
I capelli venivano lasciati lunghi, leggermente ondulati verso le punte; non avendo molti mezzi per andare dal parrucchiere, li lasciavano crescere per poterli raccogliere facilmente in code o chignon. Nella vita sociale invece, le donne giovani preferivano i capelli sciolti che conferivano una grande femminilità alla figura.
I capelli venivano lasciati lunghi, leggermente ondulati verso le punte; non avendo molti mezzi per andare dal parrucchiere, li lasciavano crescere per poterli raccogliere facilmente in code o chignon. Nella vita sociale invece, le donne giovani preferivano i capelli sciolti che conferivano una grande femminilità alla figura.
I campi di concentramento erano un microcosmo distorto della moda e delle classi sociali. Le kapò, che godevano di una posizione privilegiata, potevano acquistare calzature decenti, le uniformi migliori e accessori lussuosi quali grembiuli, calze lunghe, sciarpe e biancheria intima; le loro sottoposte indossavano di solito gli indumenti peggiori. Al livello più basso della gerarchia c’era la nudità, che significava vulnerabilità, umiliazione, violenza carnale e alla fine la morte. All’apice della gerarchia – l’equivalente dell’alta moda nei campi – c’erano le guardie. Per loro le uniformi da SS, confezionate dai lavoratori ridotti in schiavitù, costituivano la prova che erano esseri superiori.
Nel 1945, l’haute couture francese, troppo colpita per creare le sue collezioni in modi abituali, volle comunque dimostrare di essere ancora attiva e vitale. Nel marzo di quell’anno Lucien Lelong organizzò la mostra “Theatre de la mode”, una sorta di sfilata in miniatura con seicento bambole, alte 60 cm, vestite perfettamente all’ultima moda, inscenavano incontri nelle vie cittadine o in boutique immaginarie.
Con la fine della guerra, le donne volevano allontanarsi dall’austerità della guerra e dall’abbigliamento funzionale. Tuttavia, soltanto Christian Dior fu il vero iniziatore e artefice della moda post-bellica, lanciando, nel 1947, il New look.
Dior puntava sulla perfezione puntigliosa ed esclusiva del taglio, e su una linea che modellava il corpo femminile, tornando alle spalle morbide, alla vita di vespa, alle gonne lunghe. Seno in evidenza, fianchi tondi, gonna immensa. Amante del bianco e nero, prediligeva per gli abiti da giorno linee più caste, mentre per quelli da sera, scollature profonde e metri di tulle. L'aspetto femminile delle creazioni di Dior era accentuato anche dai dettagli. Obbligatori guanti, scarpe col tacco, cappelli.
Con la fine della guerra, le donne volevano allontanarsi dall’austerità della guerra e dall’abbigliamento funzionale. Tuttavia, soltanto Christian Dior fu il vero iniziatore e artefice della moda post-bellica, lanciando, nel 1947, il New look.
Dior puntava sulla perfezione puntigliosa ed esclusiva del taglio, e su una linea che modellava il corpo femminile, tornando alle spalle morbide, alla vita di vespa, alle gonne lunghe. Seno in evidenza, fianchi tondi, gonna immensa. Amante del bianco e nero, prediligeva per gli abiti da giorno linee più caste, mentre per quelli da sera, scollature profonde e metri di tulle. L'aspetto femminile delle creazioni di Dior era accentuato anche dai dettagli. Obbligatori guanti, scarpe col tacco, cappelli.
Spero che la mia tappa vi sia piaciuta.
Personalmente sono molto contenta di aver letto Le sarte di Auschwitz non solo perché mi ha permesso di conoscere un aspetto dei campi di concentramento che non conoscevo – sebbene sapessi che tutti i deportati che erano utili al Terzo Reich avessero molte più possibilità di uscire vivi da quell’inferno – ma anche perché con il suo libro Lucy Adlington contribuisce a tenere viva una memoria che non possiamo permetterci di dimenticare mai.
Alla prossima.
Personalmente sono molto contenta di aver letto Le sarte di Auschwitz non solo perché mi ha permesso di conoscere un aspetto dei campi di concentramento che non conoscevo – sebbene sapessi che tutti i deportati che erano utili al Terzo Reich avessero molte più possibilità di uscire vivi da quell’inferno – ma anche perché con il suo libro Lucy Adlington contribuisce a tenere viva una memoria che non possiamo permetterci di dimenticare mai.
Alla prossima.
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